FANFIC
Questa notte ti ho pensato
Majo
Notte. Le stelle brillano come tanti spilli nel velluto blu del cielo. Alcune nuvole solitarie si soffermano sopra le torri puntute di Hogwarts. È tutto buio. Perfino i fuochi che di solito scoppiettano nei camini tacciono intimiditi. Tutto intorno c’è un’atmosfera di ansia e di tensione, tutti aspettano che accada qualcosa, che qualcosa li liberi. Non li possono vedere, ma tutto intorno mangiamorte e dissennatori sorvegliano le entrate alla scuola.
I ragazzi si rigirano nei letti. Alcuni sognano il loro futuro tinto dello smeraldo di Serpeverde. Altri, meno fortunati, sperano che le loro famiglie siano ancora a casa, vive. I loro incubi sono popolati da figure incappucciate, che avanzano mute verso di loro brandendo le bacchette. Molti li hanno visti uccidere i propri nemici. Con le mani che si stringono convulsamente alle lenzuola, i denti conficcati nel cuscino, altri ancora piangono e sperano. Piangere e sperare sono ormai la stessa cosa per la maggior parte di loro. E tutto si affievolisce e scompare, trasportato dalle ore che zoppicano lente. Tutto tranne la paura.
È lei la signora di queste tenebre, lei che scivola per i corridoi deserti, abbandonati perfino dai ritratti. Non ci sono muri che possano fermarla. Per lei non fanno differenza grado, famiglia, colore. È padrona di ogni cuore tra le salde mura della scuola di magia.
Notte. Una notte come tante altre, ormai. Nella torre di Grifondoro ci sono dei letti vuoti. In uno c’è ancora qualche capello dorato, come se fosse stato dimenticato per sbaglio. Uno ha le tende chiuse. È un posto quasi mitico, perché lì ha riposato il Bambino Sopravvissuto, quello che voci sempre più insistenti danno per catturato o morto. Non c’è modo di confutare i sospetti insinuati dal nemico. La radio funziona a tratti, sempre più oppositori vengono sterminati. Il terreno di Azkaban si tinge dello stesso colore di quei baldacchini, dello stesso scarlatto opaco e scuro.
È molto tardi. Tutti, perfino gli insegnanti, dormono. I petti si alzano e si abbassano. Gli occhi cercano di non aprirsi sulla realtà e rimanere imprigionati nel sonno. Almeno nella notte nessuno può perseguitarli, almeno i loro pensieri non possono metterli in pericolo.
In una stanza nella torre, dietro lo studio del preside, l’ospite si rivolta tra le lenzuola candide. Si agita, scuote il capo cercando di liberarsi di ciò che lo turba. È sudato, ma ha freddo. Le sue dita pallide artigliano l’aria, cercando di svegliarlo. Piccoli gemiti gli sfuggono dalla bocca. Lui, che non ha alcun motivo di avere paura, trema come uno dei suoi giovani allievi.
“Stammi lontano, non mi toccare!”
“Da quando al piccolo Severus piace fare lo spavaldo?” ride e lo guarda sprezzante. Gli sputa ai piedi.
Il giovane studente con i capelli neri arrossisce di rabbia e vergogna. I suoi occhi neri saettano di odio verso il nemico. Sa bene lui, di non poter fare nulla, di dover sottostare alle umiliazioni, di dover tacere. Ma sarebbe più facile se non ci fosse lei. Lei che lo sta guardando, che gli fissa gli occhi chiari nella schiena, trafiggendolo di mille aculei. Lo guarda con compassione, con una pietà che lo fa sentire un nulla.
“Non dovevi offenderla, Piton, hai passato ogni limite. Meriti di essere punito…” ha una voce cattiva, insinuante, sibilante.
Il ragazzo sbianca, sente un brivido freddo percorrerlo, gli si irrigidiscono le mani. Vorrebbe scappare ma non vuole apparire vile. Vorrebbe implorare pietà, ma un Serpeverde non è autorizzato a farlo. In effetti non ha che una scelta.
“Ho detto solo quello che è vero. E lo sai benissimo anche tu, Potter”. Ha cercato di essere il più acido possibile, di dimostrarsi potente, sicuro di sé.
Attorno a lui altri tre prorompono in sonore risate. La ragazza non parla, ma può sentire il suo respiro indignato. Può sentire tutto di lei, perfino immaginare cosa pensa. Certo non lo aiuta, perché adesso percepisce anche il suo disprezzo, che lo artiglia allo stomaco, mozzandogli il respiro.
Non fa in tempo neppure a ribattere ancora, neanche a sentirsi schernito. In un attimo il mondo per lui si è capovolto, il cielo sta sotto, il terreno si allontana dalla punta del suo naso. Gli gira la testa, scalcia. Tutto intorno a lui è un vortice di colori, sensazioni sgradevoli. Gli viene da vomitare, si sente male, suda. Può udire distintamente le voci, che si confondono in un frastuono ronzante e fastidioso. Tra di esse ne emerge ogni tanto qualcuna. Le parole sono sempre le stesse. Derisorie, cattive, più avvilenti della tortura che gli stanno infliggendo.
Davanti agli occhi gli ballano tanti puntini colorati. Li chiude, per non essere costretto a vedere.
“Oh, guarda le mutande del nostro Severus…ma che carine!”
Ancora risate. E quelle parole. Trema, trema di rabbia, di odio di spavento. Tutto intorno a lui è un vorticare di emozioni convulse. Ha un sapore acido in bocca. Poi si sente cadere. Rovina malamente a terra. Tutto tace. Osa aprire gli occhi. E davanti a lui c’è lei, la vergine vendicatrice, con lo sguardo fiammeggiante e allo stesso tempo triste. Lo degna di una sola occhiata, prima di allontanarsi quasi fluttuando.
Tutto è vergogna, vertigine, il mondo gli ondeggia davanti. Lei scompare piano nella nebbia, inghiottita dalle ombre. E nelle ombre c’è la morte, anche se non si vede. La morte come una grande bocca spalancata dalle fauci enormi. Vorrebbe fermarla, ma non può. Lei non lo sente, le parole gli muoiono in bocca. Ecco, ora morirà, e sarà colpa tua, di nuovo.
Il professor Piton balzò a sedere, gli occhi sbarrati nel buio davanti a lui, cercando di cogliere i contorni indistinti della stanza. Non c’era niente. Solo il caminetto con le braci ancora rossastre e i pochi mobili che usava come arredamento. Niente che non ci fosse già prima. Si passò una mano sulla fronte, scoprendola bagnata di sudore. Aveva i capelli appiccicati al viso, si sentiva tremare.
Appoggiò i piedi nudi a terra, sentendosi un po’ rinfrancato dal contatto con il pavimento ruvido e freddo. Almeno il mondo era fermo, non tutto un’onda come nel suo sogno. Sì, poteva essere solo un sogno, ovviamente. Uno dei tanti che lo perseguitava ormai da tempo. Essere il preside non lo aveva liberato dai propri sensi di colpa, aveva solo risvegliato in lui rabbia e odio da tempo assopiti. Non poteva rimanere a letto. Non sarebbe comunque riuscito a riaddormentarsi. Si avviò a passi stanchi nel suo ufficio, proprio oltre una piccola porta di legno. Aprì la finestra. L’aria frizzante entrò all’interno. Aria pulita, libera. Storse la bocca in una smorfia di disprezzo. Non era libero niente, lì dentro.
A fargli compagnia c’era solo il silenzio. Un silenzio preferibile alle risate e alle voci schiamazzanti. Un silenzio angosciante e opprimente. Appoggiando i gomiti al davanzale, si prese la testa fra le mani. Non poteva continuare così, non andava affatto bene.
“Non va affatto bene. Non può continuare a questo modo”.
Guardò l’uomo che aveva davanti, attendendo rispondesse.
Gli occhi gelidi di Lucius Malfoy lo guardavano con scarso interesse. Sollevò un poco il mento e appoggiò a lato della poltrona la sua copia della Gazzetta del Profeta. “Come scusa?”
“Ho detto che non può andare avanti così. Questo è il colmo!”
Aveva uno sguardo confuso. Le mani si torcevano in preda alla frenesia. Appoggiò le mani al piano del tavolo da the e si sporse in avanti. Ora erano a una decina di centimetri l’uno dall’altro.
Malfoy aggrottò una sopracciglia. La sua bocca sottile si tese in un sorriso sarcastico. “Cosa può essere mai successo?”
“Guarda qui, guarda! È impossibile, non posso crederci!”
Era un cartoncino bianco con il bordo oro. Sul davanti una scritta dorata annunciava il matrimonio di James Potter e Lily Evans. All’interno erano specificati la data e il luogo. Qualcuno aveva aggiunto a penna “conto sulla tua presenza”. Era una calligrafia morbida e ben formata, piacevole. Il mago sorrise.
Davanti a lui Piton attendeva la sua opinione. Negli occhi gli bruciava una luce febbrile. Pareva quasi avere paura di quello che aveva mostrato.
“Cosa ti aspettavi? È una vita che sono fidanzati” osservò l’altro freddamente.
“Ma era mia amica! Sapeva che io non posso sopportare James. Dopo tutto quello che mi ha fatto!”. La sua voce era ridotta a un piagnucolio.
L’altro fece spallucce. “Il problema che si pone è un altro. Immagino tu sappia che il Signore Oscuro non vede di buon occhio Potter. Mi chiedo cosa succederà alla ragazza quando sarà venuto il momento di toglierlo di mezzo”.
Ora negli occhi del professore brillava una fiamma di puro terrore. Il terrore della preda braccata che sente avvicinarsi il cacciatore. Il terrore dello spettatore che assiste a una disgrazia inevitabile. Il viso di Malfoy si deformava in un ghigno feroce, da belva, e poi scompariva, inghiottito dal mantello di un dissennatore. Tutto diventava freddo e informe, come in un cimitero, come dopo la morte. Da qualche parte campane suonavano a festa. Qualcuno si sposa? O forse a morto. Sì, probabilmente. Perché qualcuno sta per morire. Morire. Freddo. E morte.
Aprì gli occhi. Aveva le mani serrate sulle pietre della finestre, le nocche bianche per la tensione. Si era assopito di nuovo. Si diede dello sciocco, si chiese cosa avesse di tanto nefasto quella notte. Forse i fantasmi del passato avevano deciso di tornare a tormentarlo tutti insieme proprio in quel momento? No, non tutti. Lei sola. Cosa poteva volere ancora da lui? Dopo tutto quello che le aveva dato, che le aveva promesso. Per lei avrebbe fatto qualunque cosa. Avrebbe perfino dato la vita.
E invece non aveva fatto niente. L’aveva lasciata morire, come un oggetto senza valore, come una scarpa vecchia. Tutto questo era assurdo. La sua stessa posizione era assurda. Lui non avrebbe dovuto essere in quell’ufficio, ma da qualche parte ad Azkaban, a scontare le sue pene. Forse allora tutto quel tumulto sarebbe taciuto. Alzò gli occhi, impotente, verso il quadro di Silente, sperando in un po’ di conforto. Ma il vecchio preside era sparito chissà dove nei bui recessi della scuola. Non c’era mai quando serviva. Si sentì invadere da un vago malessere.
Si sedette sulla grande sedia dietro la scrivania di legno. Doveva calmarsi. Il cuore gli martellava nel petto, sembrava rombare nell’ambiente vuoto.
Il cuore gli batteva forte quando entrò nella casa. Finalmente soli, lui e lei, per sempre. Il muro era stato abbattuto dall’impeto dell’attacco. Aprì la porta quasi con foga e si precipitò velocemente su per le scale. Non sentiva alcun rumore. Non gli piaceva, tutto quel silenzio. Silenzio voleva dire morte. Avrebbe dovuto piangere, dopo tutto lo amava. E invece non sentiva i suoi gemiti, la sua voce, la voce che avrebbe riconosciuto tra mille.
Il Signore Oscuro era nel piccolo salotto. Lo sentiva oltre la porta divelta e le macerie che ingombravano la stanza. Lui emetteva qualche debole grido, ogni tanto. Sembrava meno forte di prima, come se qualcosa avesse bloccato il suo potere. Entrò. E vide. E desiderò di essere lui al posto di James.
Perché lei era distesa al suo fianco, un rivolo di sangue le usciva dalle labbra semiaperte. Gli occhi, quei bellissimi occhi, guardavano il vuoto, il buio del nulla. Dio, perché erano stati chiusi, quegli occhi? Si chinò al suo fianco, le prese le spalle tra le mani, la scosse. È tutto inutile, povero sciocco. Tutto tempo sprecato.
Gli aveva promesso che gli avrebbe lasciato la donna. E invece aveva ucciso anche lei, l’unica cosa per cui valesse la pena vivere e combattere. E ora quel corpo era freddo e pesante contro il suo petto, tra le sue braccia. Poteva stringerlo solo in quel modo, solo ora che non avrebbe mai potuto rispondergli. La abbracciò forte, mentre le lacrime gli rigavano il volto pallido. Piangeva e tremava. E sentiva il disprezzo di lei perché l’aveva tradita.
Per un suo errore lei aveva pagato. Lei, così bella, così perfetta, così…
Si era accorto allora che nella stanza mancava il bambino. Che qualcun altro doveva essere passato a portarlo via. Che forse era colpa di quel neonato se il suo Signore aveva perso ogni potere. Ancora una volta grazie a lei, tutto per merito suo.
Era rimasto a piangere ore. Ore. E la morte lo accarezzava con le sue mani adunche. Lo trascinava sempre di più verso il basso, verso il fondo. Il fondo nero dell’oblio, dell’aula di pozioni, di doverlo rivedere ogni anno, di tirarlo fuori dai guai.
“Severus!”
E’ lei che lo chiama?
“Severus!”
No, non è lei, ovviamente. Apre gli occhi, confuso. La voce viene dalle sue spalle, è la voce di Silente. Si alza faticosamente in piedi, il viso ancora pallido per il sonno. Il vecchio preside lo guarda con serietà: che abbia intuito i suoi pensieri? Rimane in silenzio, in attesa. Deve succedere per forza qualcosa, o tutto quello che ha fatto sarà vanificato.
“Devi portargli la spada. Deve utilizzarla”.
Lo guarda, per essere sicuro di aver capito bene. Poi un sorriso sarcastico gli affiora alle labbra.
“Pensa che gliela possa dare in mano senza che prima mi uccida?” la risata diventa un sibilo e si spegne. Non è proprio in vena di battute.
“Penso che tu possa escogitare qualcosa per attirarlo nel punto in cui lascerai la spada”.
Inclina la testa di lato. Pensa, devi pensare. Ma è così difficile, con il sonno, la paura, il senso di colpa. I pensieri scappano come trascinati dalle acque gelide di un fiume.
“Questa notte l’ho sognata”
Perché lo dici a lui? Forse non lo sai neppure tu. Forse perché speri che ti dica che non hai colpe, che non avresti potuto fare niente per lei. O forse perché ti punisca per quello che le hai procurato.
Annuisce. “La ami ancora, vero?”
Non si aspettava una domanda del genere. Sfumature scarlatte imporporano le guance tirate. Abbassa la testa. Si vergogna, come uno scolaretto colto sul fatto, come una ragazzina spaventata.
Silente sorride benevolmente. Si passa una mano sulla lunga barba bianca. “Lancia un patronus”. I suoi occhi sono simili a due piccole stelle che perforano la cornice. Ha escogitato qualcosa, glielo si legge in faccia.
Sono anni che Piton non lancia un patronus. Prende in mano la bacchetta. La punta verso la finestra. Potrebbero vederlo, e sarebbe la fine, sarebbe scoperto. Ma cosa può importare in quel momento. Meglio morire ucciso dai Dissennatori che vivere cento notti come quella.
“Expecto Patronus!”
Una cerva si plasma nella luce azzurra che esce dalla sua bacchetta. Balza fuori dalla finestra, si perde nel buio della foresta. È bella, come quella che lanciava lei. Non ricorda più quale fosse il suo patronus originario. Doveva essere qualcosa di piccolo e insignificante. Mentre quello di lei, quello che ha imparato a lanciare dopo che lei è morta, quello è splendido. I suoi occhi guardano la cerva che si allontana e vedono altro.
“Non mi dirai che non sai lanciare un patronus?”
Gli sorride sorpresa. Sono seduti sulle sponde del lago. Lei è sdraiata a pancia in su nell’erba, gli occhi persi nel cielo quasi estivo.
“No, dico solo che non mi piace”.
È uno dei pochi momenti in cui può stare da solo con lei, mentre gli altri si allenano per il Quiddich. Vorrebbe dirle tante cose, ben più importanti, invece ha finito per lamentarsi dell’aspetto del suo patronus.
“L’importante è che funzioni”.
Ha gli occhi semichiusi, ridotti a due fessure. Il sole la bacia con i suoi raggi caldi. Il sole…quanto vorrebbe essere al suo posto!
“Non c’è modo di modificarlo?”
“Sei tu quello che studia tutti i libri della biblioteca, avrai pur trovato qualcosa”.
“Sì…forse. Si può imitare il patronus di un altro, ma solo in un caso”.
Adesso è imbarazzato. Non dovrebbe dirglielo, non è corretto.
Lo guarda incuriosita. Si è girata su un fianco per poterlo fissare negli occhi. È disarmante. Attende.
“Quando si ama la persona in questione e questa muore”.
Cala il gelo. Lei si irrigidisce, si mette a sedere. Lui la fissa quasi spaventato. Ecco, adesso se ne andrà, si prenderà gioco di te con gli altri, comincerà a temerti.
Invece ride con la sua risata argentina.
“Allora mi dispiace, ma non posso aiutarti. Questo è mio e vorrei conservarlo il più a lungo possibile. Expecto Patronus!”
La cerva salta agile a terra e si perde correndo sulle acque scure e piatte del lago. La guardano allontanarsi, verso il futuro, verso il destino.
La cerva che vaga nella foresta, la cerva sopra il lago. La cerva braccata dal lupo che muore difendendo i suoi piccoli. E non si può fare altro che amarla, che stringere il poco calore che rimane di lei.
“Potresti attirarlo con il tuo patronus. Gli risulterà sicuramente familiare”.
Si era distratto. Si gira e fissa il preside, poi riprende il filo del discorso. Un brivido lo scuote. Annuisce. Sa di doverlo fare, di dover agire in fretta.
“Un attimo solo. Devo fare una cosa, prima”.
Silente lo guarda di sottecchi. Poi annuisce lentamente. Forse non capirà mai quello che stai per fare, forse non lo capirebbe nessuno.
Il professore uscì, facendo il minor rumore possibile. I corridoi erano deserti. Le fiaccole spente. Il silenzio praticamente totale. C’era una cosa che doveva fare prima di partire, di cui doveva accertarsi. Attraversò in punta di piedi lo spazio che lo separava dal suo vecchio laboratorio. C’era ancora, la vecchia cassapanca di mogano dove riponeva le sue cose. Adesso era usata da un altro, ma questi non conosceva lo scomparto segreto che si apriva toccando un apposito tasto sul fondo. E in quel piccolo spazio, appena sufficiente, era appoggiata una cornice d’argento. All’interno una foto ormai sbiadita. Era lei, un bel primo piano, che prendeva le spalle e tutto il viso. Era l’unica foto che possedeva di lei. L’avevano scattata un pomeriggio, pochi mesi prima che morisse. Il vento le scompigliava i lunghi capelli. Le labbra si distendevano in un sorriso sensuale, le ciglia sbattevano per il riverbero del sole. E i suoi bellissimi occhi lo fissavano, dolci e pensosi, come se già presagisse il proprio futuro.
“Questa notte ti ho pensato”.
Perché glielo dici, lo dici a una fotografia. Tanto non potrà mai sentirti, giusto?
“Ho pensato a noi, a te. A quello che mi hai lasciato. Io morirò, sai? Non vivrò abbastanza per vedere la pace che abbiamo sognato. Morirò perché proteggerò tuo figlio fino all’ultimo, come hai fatto tu. Anche adesso sto andando ad aiutarlo. Non avertene a male, ma non avrò più tempo di salutarti, poi. Questa sarà l’ultima notte che potrò pensarti. Non dimenticarmi”.
Una lacrima bagnò il vetro, rendendolo opaco. Ripose la foto. Perché mai, visto che non potrai più vederla? Vuoi forse proteggere anche lei?
Si diresse verso il suo ufficio. Doveva andare, portare la spada. Mettere da parte ogni emozione che potesse distrarlo. Dimenticare lei per il tempo sufficiente a vivere ancora.
Squilla il telefono. Lily Potter lascia il bambino a James e corre a rispondere.
“Chi parla?”
“Sono io”. La voce è tetra, roca, spaventata.
“Severus? Come mai...?”
Potresti dirle che stanotte verranno ad uccidere suo marito e suo figlio, che verrà il tuo Signore e li spazzerà via tutti quanti. Come foglie in un giorno d’autunno.
“Devi andartene di lì”.
“Perché? Si può sapere che succede?”
“Ecco, vedi, questa notte…”
Senti dei passi attraverso la cornetta, qualcuno che le si avvicina. Le loro voci ti giungono attutite, deve aver messo una mano sul ricevitore.
“Tutto a posto, amore?”
“Sì, caro, non ti preoccupare. Bada che Harry non si faccia male”.
Si vogliono così bene. Perché turbare la sua quiete. Perché insinuare in lei il terrore, il dubbio, poche ore prima? Perché provocarle il panico che non la aiuterebbe a scappare. A Lui non si può sfuggire. E lei non se ne andrebbe mai con il suo vecchio amico Severus. Perché ama James, fattene una ragione.
“Mi stavi dicendo? Questa notte…?”
Deglutisci. Adesso devi pensare a lei. A rendere sereni i suoi ultimi istanti. Non si merita di soffrire più del dovuto.
“Questa notte ti ho pensato”.
Il silenzio attonito ti accompagna mentre riattacchi la cornetta.